- il filo sottile che tiene insieme due persone
- Quale filo?
- Il filo di tutto quello che le tiene legate, anche quando sono lontane. Anche quando non si vedono e non si parlano.
- Perché dici il filo?
- Perché è una cosa molto sottile e molto resistente, no? Che puoi anche non vedere, ed è estensibile quasi senza limiti attraverso la distanza e il tempo e l’affollamento delle altre per...sone che occupano lo spazio e lo attraversano in ogni direzione.
Però non è affatto scontato che ci sia, il filo.
- No?
- No. Magari due pensano di essere molto legati, poi appena provano ad allontanarsi scoprono che in realtà stanno benissimo ognuno per conto suo.
- E allora perchè pensavano di essere legati?
- Perchè erano tenuti insieme da una colla di pura abitudine e oggetti e luoghi condivisi e gesti stratificati. E’ una colla così forte da sembrare una saldatura permanente, ma appena uno dei due prova a staccarsi non c’è nessun filo che lo segua.
- Che triste.
- Sì. La maggior parte dei legami sono di questo genere, credo.
- Come fai a sapere che invece il filo c’è?
- Quando provi a romperlo, e ti trovi in caduta libera attraverso il senso delle cose.
- E di cosa è fatto, questo filo?
- Di uno scambio continuo di domande e risposte. Sguardi, anche solo immaginati. Assonanze e intuizioni e sorprese, curiosità reciproca che non si esaurisce. E similitudini, e differenze.
mercoledì 27 febbraio 2013
Discorso sulle donne
Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne.
Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto. Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle, donne che riescono a girare i paesi e donne che non ci riescono, donne che hanno tanti bei fazzoletti e donne che non hanno mai fazzoletti o se li hanno li perdono, donne che spezzano la legna sul ginocchio e accendono il fuoco e fanno la polenta donne che s’annoiano a morte e frequentano corsi di storia delle religioni e donne che s’annoiano a morte e portano il cane a passeggio e donne che s’annoiano a morte e tormentano chi hanno sottomano, e donne che escono il mattino con le mani viola dal freddo e una sciarpetta intorno al collo e donne che escono al mattino muovendo il sedere e specchiandosi nelle vetrine e donne che hanno perso l’impiego e donne che sono state piantate da un uomo.
Ho conosciuto moltissime donne, e adesso sono certa di trovare in loro dopo un poco qualcosa che è degno di commiserazione, un guaio tenuto più o meno segreto, più o meno grosso: la tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata che gli uomini non conoscono forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi con lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi. Le donne incominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del loro naso o della loro bocca o di qualche parte del loro corpo che trovano che non va bene , o piangono perché pensano che nessuno le amerà mai o piangono perché hanno paura di essere stupide o perché hanno pochi vestiti; queste sono le ragioni che danno a loro stesse ma sono in fondo solo dei pretesti e in verità piangono perché sono cascate nel pozzo e capiscono che ci cascheranno spesso nella loro vita e questo renderà loro difficile combinare qualcosa di serio.
Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo.
Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitu sulle spalle e quello che dovono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perchè un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. così devo imparare a fare anch'io per la prima perchè se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finchè sarà così popolato d'una schiera di esseri non liberi.
martedì 19 febbraio 2013
lunedì 4 febbraio 2013
Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”. Studiammo. Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve a niente? Avreste fatto meglio a imparare un mestiere!”. Lo imparammo. Dopo averlo imparato ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere?”. Ci convinsero e lasciammo perdere. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza un centesimo. Ricominciammo a sperare, disperati. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo grandi, con troppa esperienza e troppi titoli. Finalmente trovammo un lavoro, a contratto, ferie non pagate, zero tredicesime, zero Tfr, zero sindacati, zero diritti. Lottammo per difendere quel non lavoro. Non facemmo figli – per senso di responsabilità – e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro lavori trovati facilmente negli anni ’60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Ci riproducemmo e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli. Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente a casa. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene affanculo!”.
sabato 2 febbraio 2013
Ho smesso di chiederti come stai.
Ho smesso di parlarti, come una volta.
Ho smesso di dirti qualsiasi cosa, a volte, certe parole le tengo per me.
Ho smesso di dirti quando sto male.
Ho smesso di dirti che mi manchi.
Tu non c'eri più, e allora mi sono messa da parte.
Non c'eri più per me. Solo per qualcun'altro, forse un po' più importante di me.
E allora mi sono accantonata, mi sono rifugiata in un angolino, ho chiuso gli occhi e ho aspettato che ti accorgessi che ero finita chissà dove.
Ho sperato che te ne accorgessi.
E invece mi son dovuta rialzare, passarti davanti e lasciarti andare.
Ho smesso di parlarti, come una volta.
Ho smesso di dirti qualsiasi cosa, a volte, certe parole le tengo per me.
Ho smesso di dirti quando sto male.
Ho smesso di dirti che mi manchi.
Tu non c'eri più, e allora mi sono messa da parte.
Non c'eri più per me. Solo per qualcun'altro, forse un po' più importante di me.
E allora mi sono accantonata, mi sono rifugiata in un angolino, ho chiuso gli occhi e ho aspettato che ti accorgessi che ero finita chissà dove.
Ho sperato che te ne accorgessi.
E invece mi son dovuta rialzare, passarti davanti e lasciarti andare.
venerdì 1 febbraio 2013
Non so esattamente come sia successo, che i fiumi di parole sono finiti, scomparsi, annientati.
Forse si sono solo spostati, negli occhi,nelle mie sfumature.
Non lo so com'è successo, è che vorrei sussurrarti tutto, ma poi mi perdo in te e lascio agli occhi il compito di gridarti quel che sento.
Mi perdonerai per questo, e intanto tienimi per mano.
Forse si sono solo spostati, negli occhi,nelle mie sfumature.
Non lo so com'è successo, è che vorrei sussurrarti tutto, ma poi mi perdo in te e lascio agli occhi il compito di gridarti quel che sento.
Mi perdonerai per questo, e intanto tienimi per mano.
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